Il loro albergo a Tiruchirapalli, secondo la denominazione attuale, o Trichinopoly, secondo il nome inglese, o Trichy, come è comunemente chiamata oggi la città, era un piacevole edificio `indian style', che all'esterno ricordava una colonia estiva o un ospedale. Grandi verande ventilate con sedie e tavolini di vimini, camere spartane e cavernose, enormi bagni molto essenziali con un buco nel pavimento come scarico di doccia e lavandino, la sala da pranzo uno spazio più nero e afoso dell'interno di un tempio, ma tutt'intorno si stendeva un giardino di alberi fruscianti e un prato dove si poteva cenare. Sul prato di giorno giocavano gli scoiattoli e la sera saltavano i rospi, nelle verande correvano topolini grigi, sugli alberi bande di scimmie e una miriade di corvi facevano baccano.
Il caldo era tremendo, il sole picchiava forte, per cui solo nel tardo pomeriggio trovarono la forza di visitare la principale attrazione della città, il Rock Fort, un complesso di templi e grotte inerpicato su una formazione rocciosa in mezzo all'abitato. Verso le sei partirono su un risciò a pedali, nell'aria appiccicosa del tramonto. Il tragitto dall'albergo, vicino alla stazione e lontanissimo dal centro, prese più di un'ora attraverso il traffico anarchico delle grandi strade della città nuova e poi nella folla dei bazar della città vecchia. Qui, superata la paura degli autobus e delle macchine, ritrovarono il piacere della passeggiata in risciò che permette di vedere quello che succede in giro muovendosi a una velocità umana, immersi e tuttavia un pochino al di sopra del formicaio che si agita nelle strade.
Da lontano il Rock Fort appariva come un'escrescenza eretta nel mezzo della città piatta, ma una volta entrati nei vicoli che lo circondavano era impossibile averne una visione. Era ormai buio quando sbucarono da una lunga strada di bazar in una viuzza piena di luci e di gente, di fronte a un angusto arco in mezzo alle case, senza poter vedere la massa di pietra incombente. II guidatore del risciò disse che quella era l'entrata. Lasciati i sandali all'incaricato, iniziarono la salita in una galleria coperta.
La scalinata si arrampicava nelle viscere della collina. All'inizio era affollata e allegra per i molti banchetti che vendevano oggetti religiosi, fiori, noci di cocco, pubblicazioni sacre, polveri colorate e burro da spalmare sulle statue. Tra un banchetto e l'altro si aprivano cappelle oscure in cui si vedevano immagini di divinità ricoperte di polvere rossa e carta d'argento, porte tinte di azzurro socchiuse su buie stanze dove i bramini vivevano le loro vite afose. In cima a una rampa, su un vasto pianerottolo, un elefante dipinto a colori vivaci raccoglieva nella proboscide offerte di monetine e le dava al suo mahut, poi ringraziava toccando sul capo l'offerente. L'amico di Irene volle provare, e trovò che il tocco era delicatissimo.
La salita era faticosa per il caldo soffocante. Malgrado fosse l'ora del rito serale c'erano pochi devoti, e nessun turista. La grande scalinata a un certo punto girava a destra. Sulla sinistra c'era il portale di un tempio grande e cupo come una caverna. L'ingresso ai non indù era vietato, ma alcune persone li chiamarono a guardare dalla soglia il sacerdote che officiava intorno al fuoco tra i fedeli prosternati sul pavimento, in un modo che non avevano mai visto prima.
Infine emersero nel buio caldo e fermo della sera. La scalinata continuava scavata nel fianco della roccia, tra grotte antiche e cappelle moderne, finché si trovarono proprio in vetta, con una vista sconfinata sulle luci tremolanti della città. I gradini era delimitati da ringhiere, ma alcuni giovani indiani le avevano scavalcate e stavano seduti sulla roccia viva, contemplando le luci sotto di sé e parlando sommessamente. Il cielo era completamente nero. In un tempietto in cima alla salita un bramino seminudo dall'aria feroce faceva una cerimonia attorno a un braciere, buttando nelle fiamme chicchi di riso e canfora; sembrava contento di vedere dei turisti interessati ai suoi traffici. Irene non aveva voglia di fingere devozione e si limitò a fare un giro intorno all'edificio, in una specie di galleria sospesa sul vuoto e ventosissima. Se non fosse stato buio le vertigini l'avrebbero travolta.
La discesa all'esterno fu impressionante: sembrava di essere su una corda tesa sulla città e le sue tremule luci giallastre. I gruppi seduti fuori dalle ringhiere sulla scabra superficie tondeggiante, a un passo dal precipizio, le facevano girare la testa. Infine furono di nuovo nel caldo scuro e protettivo della scalinata che si insinuava come un verme nella collina, e uscirono all'aperto nella stradina affollata dove, con una rupia, ricuperarono le calzature.
Ritornarono a piedi attraverso la strada principale del bazar, ampia e vivace. Irene cercava un'ametista per sostituire un orecchino perduto. Nelle botte
ghe con la scritta `Precious stones' padroni e commessi, seduti a gambe incrociate sul pavimento coperto di stoffa bianca, ciarlavano davanti alle vetrine polverose dove si vedeva al massimo qualche catenina d'argento, senza darle retta. Quando finalmente si decidevano a interrompere le chiacchiere, tutti scuotevano il capo alla sua richiesta, così finì per rinunciare.
Giunsero nel vasto spiazzo dove si fermavano gli autobus di città. Immediatamente li colpì uno strepito festivo di tamburi e flauti che si avvicinavano. Attesero, lieti per l'aspettativa. La piazza formicolava di gente e di veicoli. Nel buio polveroso videro arrivare un carro tirato da una donna che governava con fatica le stanghe, pieno di luci, file di lampadine colorate, decorato di fiori, su cui stava seduto un uomo inghirlandato. Irene, conoscendo la pompa con cui lo sposo viene portato alle nozze, pensò immediatamente a un matrimonio. Ma qualcosa nel modo in cui l'uomo ciondolava sul sedile a braccioli e soprattutto la fatica della donna le fecero capire presto che si sbagliava. Non ricordava nulla del corteo dei musicanti che aveva attirato la loro attenzione, ma le rimase ben chiara l'impressione terribile quando si era resa conto che la figura coperta di fiori e illuminata dalle lampadine colorate, portata in giro in quel modo gaudioso da una donna aggiogata a un carro, era un cadavere.
Non ricordava neppure come tornarono all'albergo. Di certo avevano preso un risciò, ripercorrendo il lungo tragitto dell'andata. Ma l'impressione del carretto rutilante di luci colorate, del cadavere seduto tra le ghirlande di fiori, era più persistente di quella dell'ascesa alla collina sacra tra le cappelle scure.
Irene sapeva che se fosse tornata a Trichy si sarebbe sempre guardata alle spalle con il timore di sentire un suono di flauti e tamburi e di vedere un carretto vivacemente illuminato e ornato di fiori, trainato da una donna che stentava a dominarne le stanghe. Non ricordava nemmeno come si concluse la serata. Eppure erano sicuramente andati a cena da qualche parte.

 

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